Loading...

Edo Prando intervista Adolfo Favilla

Adolfo Favilla parla di se e del suo lavoro

Adolfo Favilla non è di quei fotografi che trovi tu, è lui che trova te. Lo conosco da una ventina d’anni, ed è sempre accaduto così. Compare quando meno te l’aspetti, irresistibile con quel suo accento toscano, con quella sua figura abbondante e paciosa che sborda ironia e battute. Un fotografico Benigni extra large.
Mi trovò, la prima volta, negli anni ottanta, con uno strepitoso portfolio di bellezze al bagno. Ricomparve qualche anno più tardi. Aveva avuto un’idea surreale: il calendario di sei mesi. Sei mesi e poi via ad un altro calendario di sei mesi. Ancora oggi non ne ho capito il senso. Ma un senso doveva averlo se l’idea fu comperata da un’azienda che uscì, appunto, con questo bicalendario. E fu sempre così quando volle trovarmi: ogni volta una idea scintillante di dolce follia. Una delle ultime era arrabbiato, anzi, incazzato – mi raccomando, con le ‘c’ un tantino aspirate, alla toscana- con i fabbricanti di fotocamere e la loro corsa ai sensori pieno formato. Aveva venduto il corredo di Nikon e Canon e Hasselblad per passare al formato 4/3 della Olympus. E con grande felicità e soddisfazione professionale.

“La mia famiglia aveva una fabbrica di tortellini e da giovane non pensavo affatto alla fotografia. Iniziai per caso, a ventinove anni, perché il cugino della mia prima moglie è Candido Martinelli, fotografo molto apprezzato negli USA per le sue foto di glamour e di pubblicità. Era l’estate del ’79 e venne in Italia, un po’ per lavoro, un po’ per vacanza. Il lavoro erano foto di nudo e glamour. Ricordo ancora la magia di quei rullini in bianconero che uscivano, lucidi d’acqua, dalla spirale di una tank Jobo. Ci teneva a sviluppare i suoi rullini. E questa, anche se ancora non lo sapevo, fu la sua prima lezione. Rimasi talmente affascinato da quelle pellicole nelle quali intravedevi, con i toni al contrario, in negativo, le figure umane riprese, che gli chiesi di spiegarmi meglio quella magia. Fu così che mi appassionai alla fotografia, a quel marchingegno fino ad allora strano. E lui, Martinelli, fu il mio maestro. E non lo perdevo di vista quando veniva in Italia, gli stavo appiccicato tutto il giorno. La cosa era di mio gusto, tanto che comperai la mia prima fotocamera, era una Olympus OM-1”.


Galeotto fu il cugino, ma anche Olympus, che da allora divenne l’appendice di quelle sue grandi mani.
“...all’epoca - erano gli ultimi anni settanta – ero appassionatissimo di tennis e non mancavo mai i Master di New York, quelli che si tengono al Madison. Così allungavo la vacanza e, oltre al tennis, mi dedicavo alla fotografia, sotto la guida di mio cugino. Aveva un favoloso studio al Rockfeller Center, un intero piano dove incontravi le modelle più strepitose del momento. I suoi clienti erano Playboy, Penthouse, oltre alla pubblicità, per la quale girava anche spot. Ero affascinato da quel mondo e dalla vita che faceva: lavorava come un matto quattro, cinque mesi, poi se ne andava in giro, spendendo i soldi che aveva guadagnato. E’ stata una buona scuola. Potevo fotografare le sue modelle e questo, per un fotografo alle prime armi, è importante. Se davanti al tuo obiettivo hai una professionista puoi imparare molte cose. Già all’epoca avevo sviluppato un mio stile personale. Usavo obiettivi fissi, perché all’epoca gli zoom non erano ancora di buona qualità, e per i ritratti impiegavo il 135mm, che non è il classico obiettivo da ritratto. Però avevo quell’obiettivo e lo usavo e ho, poco per volta, elaborato un mio stile personale. Oggi, sempre per i ritratti, uso focali che sono il doppio di quelle consigliate dai manuali. Per circa cinque anni ho fatto su e giù da New York. Visto che riuscivo bene, il cugino mi consigliò di dedicarmi alle foto di nudo e glamour. Mi diede anche l’indirizzo di un’agenzia, in Italia, che avrebbe potuto vendere le mie foto...”

Per un po’ di anni Favilla ha fotografato belle ragazze senza veli. Poi “....sempre tette e culi ....m’è venuto a noia e mi sono guardato attorno. Conobbi Origgi, della rivista Uomo Mare e cominciai a lavorare per la Condé Nast. Erano pagine pubblicitarie per clienti che fabbricavano calzature e a volte univo scarpe e tette. Uno stile che funzionava. Da allora ho continuato a lavorare per clienti che vanno nelle pagine delle riviste di moda”.

Erano gli anni ottanta e Milano, come recitava uno slogan di successo, era da bere. Poi ne sono capitate di cose ...
“...adesso stanno tutti attenti a risparmiare. All’epoca proponevi come location dei servizi le Seychelles, Mauritius e il cliente non batteva ciglio a pagare tutto ad una troupe di sei, sette persone. Oggi trovi aziende che fatturano 20, 30 milioni di euro e fanno alloggiare tre modelle in una sola stanza d’albergo, per risparmiare. Se devi spendere 5 mila euro di viaggio, per una location nemmeno troppo distante, storcono il naso e ci pensano tre volte, e alla fine magari dicono di no. Prima la rivoluzione dei soldi quando, a partire dagli anni novanta, tutti hanno stretto i cordoni della borsa. Poi la rivoluzione digitale, che ha cambiato il modo di lavorare. Io non sono un appassionato di tecnologia, per me una macchina fotografica dev’essere un aggeggio che mi permette di ottenere le immagini che voglio io. Il resto non m’interessa. Fotografo sempre in manuale e uso il computer per rivedere le foto subito, come fosse una polaroid, per vedere se le luci sono giuste, se il bilanciamento del bianco è quello che cerco. Per come lavoro io il digitale è stato un vantaggio, che ha velocizzato il lavoro. Scatto, guardo nel computer com’è venuta la foto e se è il caso correggo i parametri di ripresa, finché l’immagine mi soddisfa. Naturalmente faccio subito delle copie. Ho paura che un qualsiasi stupido inconveniente cancelli tutto. Ho un sistema di memoria basato su 19 hard disc esterni che, ogni tre ore, fanno il back up di tutto e in doppia copia. Alla fine dell’anno faccio due copie del lavoro di tutto l’anno: una la tengo in linea, l’altra la metto al sicuro in cassaforte. Non faccio DVD, se non in casi eccezionali o per consegnare il lavoro al cliente. Non mi fido della loro durata. Quando scattavo in pellicola, ogni tre anni riduplicavo tutto l’archivio. Figurati se adesso mi fido di mettere tutto su DVD e non pensarci più. Meglio i miei hard disc dai quali pesco le immagini che voglio, quando voglio, in tempo reale con i miei Mac. Ho una serie di iMac con schermo da 24 pollici che mi soddisfano appieno. Non voglio nemmeno sentir parlare della piattaforma Windows.”

Il digitale ha fatto ricadere sulle spalle del fotografo compiti che, una volta, erano del fotolitista e dello stampatore. Molti seguono personalmente la post produzione dell’immagine...

“...io scatto, il resto lo delego a due assistenti: uno specializzato nella post produzione generica e nel fotoritocco; l’altro specializzato nei montaggi e in tecniche particolari che sono un po’ il mio marchio di fabbrica...”

Alla domanda di che tecniche si tratti Favilla risponde con un so’mica bischero a dirtele e ti perde in spiegazioni su interventi di taglia e incolla, che non sono taglia e incolla, ma che ti cambiamo le proporzioni tra i vari soggetti. Alla fine della spiegazione, debitamente fumosa, rimani col dubbio che t’abbia preso ....in giro, per usare un eufemismo, ma sei contento lo stesso, per via di quel suo accento toscano che tutto, o quasi, si fa perdonare. Meglio passare a domande meno conflittuali, ad esempio se preferisce lavorare in studio o in esterni.
“...secondo le occasioni, è la salomonica risposta.  In esterni, per riportare e filtrare la luce uso pannelli che mi fabbrico da me, con stoffe particolari. Compero i pannelli della Lastolite, tolgo la stoffa e sulla intelaiatura che rimane tendo le mie stoffe. Così ho una luce esclusiva, Made in Favilla. Questo in esterni. In interni non uso flash, ma luce continua, quella degli illuminatori cosiddetti digitali. Non ho mai amato lavorare con la luce del flash, preferisco vedere la luce mentre illumina il soggetto....”
Luci e stoffe non sono gli strumenti più importanti. Favilla si dilunga dieci minuti su quanto non deve assolutamente mancare nella borsa del fotografo professionista. Primo fra tutti il “chiappino”, la pinza da biancheria, come si chiama dalle sue parti.
“...non immagini quanto sia importante il chiappino: serve a tenere su qualsiasi cosa: la piega di un vestito, un telo, anche un seno un po’ cadente – e conclude – assieme allo scotch e al fil di ferro sottile, il chiappino è lo strumento fotografico indispensabile...”.
Parola di Adolfo Favilla e del suo staff. Sul set delle riprese sono sempre in tanti: un tecnico al computer, un assistente per le luci, un altro assistente addetto alle riprese foto e video di backstage, parrucchiere e truccatrice con relativi assistenti. E l’attrezzatura da ripresa?

“ Finché ci sono state le Olympus analogiche, ho usato quelle. Poi sono passato ad Hasselblad, ma negli ultimi tempi le ottiche non mi soddisfacevano. Così, quando è uscita la prima reflex digitale Olympus mi sono precipitato a comperarla. E sono anni che vado avanti con gli apparecchi della serie E. Adesso lavoro con la Olympus E3...”.

Molti, professionisti e amatori, pensano che il pieno formato, cioè il sensore 24x36mm, sia lo standard minimo per ottenere foto di qualità...
“... gli è una bischerata – m’interrompe Favilla – con sei milioni di pixel, cioè con molto meno di quanto ti diano le reflex APS-C di ultima generazione, hai risultati migliori di quelli che avevi con la pellicola. Dopo i 6 milioni di pixel la differenza la fanno gli obiettivi. E se questi sono stati progettati apposta per il digitale, come sono quelli Olympus, non puoi desiderare di più. Ho addirittura fatto una prova, mettendo a confronto una stampa 70x100 ottenuta da una compatta digitale e una stampa, del medesimo formato, ottenuta dalla scansione di una pellicola 6x6. Nessuno ha saputo dirmi qual’era la stampa della compatta...”