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Così esclamò il tribuno che si apprestava ad uccidere Messalina.
"Se la tua morte sarà pianta da tutti i tuoi amanti, allora piangerà mezza Roma!"
Così esclamò il tribuno che si apprestava ad uccidere Messalina.
Figlia di Domizia Lepida e di Marco Valerio Messalla Barbato (nipote di Ottavia Minore, sorella di Augusto), Messalina nacque in una famiglia patrizia imparentata con la casa Giulio-Claudia.
Quando Caligola salì al trono, era già una delle donne più desiderate di Roma per la sua bellezza. Fu costretta dall'imperatore a sposare Claudio, un uomo più anziano di lei di trent'anni, balbuziente, zoppo e al terzo matrimonio, ed ebbe da lui due figli, Claudia Ottavia e Cesare, detto poi Britannico. Dopo che il 24 gennaio del 41 i pretoriani uccisero Caligola, lei e suo marito Claudio furono acclamati imperatori di Roma. Insieme al marito fece uccidere gli assassini di Caligola, esiliò Seneca in Corsica, esiliò Giulia Livilla (sorella minore di Caligola e supposta amante di Seneca) a Ventotene dove fu uccisa, e richiamò dall'esilio Agrippina minore, sua zia.
Giovane e inquieta, Messalina non amava molto la vita di corte; conduceva invece un'esistenza trasgressiva e sregolata. Di lei si raccontarono (e si narrano tuttora) le storie più squallide: che avesse imposto al marito di ordinare a tutti i giovani e bei sudditi di cederle, che avesse avuto relazioni incestuose con i fratelli, che si prostituisse nottetempo nei bordelli (postriboli) sotto il falso nome di Licisca dove, completamente depilata, i capezzoli dorati, gli occhi segnati da una mistura di antimonio e nerofumo, si offriva a marinai e gladiatori per qualche ora al giorno.[2]
Secondo il racconto di Plinio il Vecchio , una volta sfidò in gara la più celebre prostituta dell'epoca e la vinse nell'avere 25 concubitus (rapporti) in 24 ore. Fu proclamata invicta e, a detta di Giovenale , “lassata, viris nondum satiata, recessit” ("stanca, ma non sazia di uomini, smise").
Se sapeva essere molto generosa con gli uomini che accondiscendevano ai suoi capricci, era anche pronta a far eliminare con facilità quanti non vi si prestavano. Dopo le accertate relazioni adulterine con il governatore Appio Giunio Silano (che fu costretto a sposare Domizia Lepida) e con l'attore Mnestere, Messalina si innamorò di Gaio Silio, marito di Giulia Silana, il quale ripudiò la moglie e divenne il suo amante. Nel 48, mentre l'imperatore Claudio si trovava a Ostia, durante una festa dionisiaca a palazzo i due amanti inscenarono il loro matrimonio.
Informato dal liberto Narciso, Claudio (forse timoroso che il rivale volesse succedergli sul trono) decretò la morte dei due amanti. Mentre Gaio Silio non oppose resistenza e chiese una morte rapida, Messalina si rifugiò negli "Horti Lucullani" (giardini di Lucullo) dove fu uccisa da un tribuno inviato dal liberto.
(Fonte Wikipedia)
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Penelope Discendeva da parte di padre dal grande eroe Perseo
Attese per vent'anni il ritorno di Ulisse, partito per la guerra di Troia, crescendo da sola il piccolo Telemaco e evitando di scegliere uno tra i Proci, nobili pretendenti alla sua mano, anche grazie al famoso stratagemma della tela: di giorno tesseva il sudario per Laerte, padre di Ulisse, mentre di notte lo disfaceva. Avendo promesso ai proci che avrebbe scelto il futuro marito al termine del lavoro, rimandava all'infinito il momento della scelta. L'astuzia di Penelope, tuttavia, durò meno di quattro anni a causa di un'ancella traditrice che riferì ai proci l'inganno della regina. Lo stratagemma della mia Penelope è quello di realizzare la coperta con i ferri a mano anziché con il telaio in modo da allungare i tempi i Proci da me raffigurati, 4 uomini truccati da donne e 4 donne truccate da uomo, rappresentano la modernità dei nostri tempi dove la bisessualità non è più un tabù.
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Presso quasi tutti popoli dell’antichità ai prigionieri di guerra veniva riservata una di queste due sorti: o erano uccisi o divenivano schiavi. Anche i Romani usarono considerare schiavi i prigionieri di guerra. Essi erano proprietà dello Stato, che aveva la facoltà di venderli ai cittadini privati. Le migliaia e migliaia di prigionieri catturati dai Romani durante le loro guerre di conquista aumentarono via via il numero degli schiavi. Si calcola che nel primo secolo avanti Cristo nella Repubblica romana ve ne fossero quasi due milioni. A Roma esistevano però anche degli schiavi che non erano prigionieri di guerra. Secondo la legge romana si consideravano infatti schiavi anche i disertori e coloro che non pagavano i propri debiti. Questi ultimi divenivano addirittura schiavi dei loro creditori.
Esistevano due tipi di schiavi «pubblici» e schiavi «privati»
A seconda delle loro capacità, gli schiavi venivano impiegati in attività di tipo diverso. Alcuni restavano alla dipendenze dello Stato ed erano adibiti a lavori di interesse pubblico (costruzioni di strade ponti, acquedotti, case ecc.): costoro erano chiamati schiavi «pubblici».
Altri invece prestavano servizio presso case private e perciò venivano detti schiavi «privati». A seconda delle possibilità finanziarie, le famiglie romane potevano mantenere alle loro dipendenze uno o più schiavi. Alcune, molto ricche, arrivarono a possederne parecchie migliaia. Il complesso degli schiavi privati al servizio dello stesso padrone costituiva la cosiddetta «famiglia. Da questo vocabolo derivò la parola «famigli» usata fino a poco tempo fa per indicare i domestici delle famiglie signorili.
Gli schiavi «privati» sbrigavano tutti i lavori di casa. Ad ognuno di essi veniva affidato un incarico ben preciso: c’era chi aveva cura della pulizia delle stanze, chi attendeva alla cucina, chi serviva a tavola, chi teneva in ordine gli abiti dei padroni. Ad alcuni schiavi era poi riservato il compito di accompagnare il padrone quando usciva di casa, ad altri di trasportarlo in lettiga e di ricordargli i suoi impegni.
Anche i lavori pesanti di campagna venivano affidati agli schiavi «privati». A questi era riservato appunto il compito di far rendere al massimo le terre del loro padrone. Non mancavano pure schiavi che mostrassero una buona intelligenza e anche una buona cultura. Essi venivano allora adibiti a lavori più impegnativi: amministravano le sostanze del padrone, sbrigavano la corrispondenza, copiavano libri ecc. C’erano persino degli schiavi che facevano i medici e i maestri. A questi il padrone dava il permesso di lavorare presso altre famiglie. Essi però non avevano la possibilità di disporre dei guadagni che traevano dalla loro attività , ma dovevano consegnarli al loro padrone.
«Il padrone ha il dominio assoluto sul suo schiavo. Può disporre sopra di lui del diritto di vita e di morte». Queste dichiarazioni della legge romana ci fanno subito capire la dolorosa condizione in cui si trovavano gli schiavi. Essi potevano infatti essere sottoposti ai più disumani trattamenti, senza avere il diritto di ribellarsi. Il trattamento peggiore era riservato agli schiavi di campagna. Essi erano costretti a lavorare incatenati perché non tentassero di fuggire, venivano nutriti scarsamente e con cibi di qualità scadente, dormivano in camerate sotterranee umide e malsane. Il lavoro era regolato da una disciplina ferrea: tutte le mancanze venivano severamente punite. Le più lievi meritavano la battitura con la verga; le più gravi quella con lo staffile. Questo strumento era costituito da una fune, interrotta da tanti nodi nei quali venivano inseriti ossi ed uncini. Questi avevano lo scopo di lacerare le carni dello schiavo durante la battitura. Parecchi schiavi, dopo essere stati sottoposti a questo straziante supplizio, morivano. La pena maggiore era naturalmente la condanna a morte.
Poi c'erano coloro definiti "Liberti"
Lo schiavo aveva un’unica speranza per migliorare la sua triste vita: ottenere la libertà dal padrone. La legge romana dava infatti al padrone la facoltà di liberare il proprio schiavo. Per la liberazione di uno schiavo, il padrone doveva seguire una procedura speciale, che prendeva il nome di «manumissio» = liberazione. Questa poteva avvenire in vari modi: o con la dichiarazione di libertà fatta dal padrone di fronte a un magistrato o con l’iscrizione del nome dello schiavo tra quelli dei cittadini, o per disposizione lasciata scritta ne testamento. Lo schiavo liberato era chiamato «liberto». La condizione di «liberto» era senz’altro migliore di quella di schiavo. Il vantaggio più considerevole acquisito dal liberto era quello di poter esercitare un’attività lavorativa e di poter disporre dei guadagni che essa dava. Tuttavia il liberto non godeva di tutti i diritti dei liberi cittadini. Nella vita pubblica, per esempio, poteva votare, ma non aveva il diritto di entrare nella magistratura. Nell’epoca imperiale la condizione dei liberti migliorò di molto: a parecchi di essi venne persino affidato il governo di province e il comando di flotte imperiali. Ma nell’enorme massa di schiavi erano ben pochi quelli che avevano la fortuna di diventare «liberti». Costituivano dunque la maggior parte coloro che restavano fino alla morte sotto il durissimo giogo della schiavitù.